In moto come in sogno, saper volare ma con i piedi per terra e le ruote ben incollate all’asfalto. La moto è come un libro. Più percorri chilometri, più aggiungi pagine a quell’opera omnia chiamata vita.
Ricordo ancora i miei primi approcci con questo sogno chiamato moto. Estati assolate e calde degli anni Ottanta, villeggiatura, come si usava dire un tempo, in villette vicino Roma e tutti con le mode vespaiole. Io no, amavo già le moto chiamate Regolarità, antesignane di quell’adventouring che ancora oggi mi porta sulle ali del vento.
Aspes, Swm, Simonini, Ktm, erano nomi che evocavano altezze improponibili, marmitte roboanti quando ancora Greta e i gretini erano nel nulla cosmico a non scassare i sogni di nessuno con le fisime dettate dalle manipolazioni del marketing.
Mio padre era contrario alle moto. Fissato per la Vespa, me la sono beccata a 16 anni al posto di un sogno chimato moto (e devo dire che dopo un orribile Zeta Malanca a 14 anni, mi era andata puire di lusso). Mio padre, l’ho sempre amato, nelle sue contraddizioni (al fratellino viziato che di poco non gliene fregava nulla se non per farci un po’ di sfoggio nel riequilibrare le proprie “incompiutezze”, in verità mai risolte, aveva regalato una Gilera Enduro 125, all’avanguiardia per l’epoca, da tenere in garage, e io a bestemmiare con il Vespone). Su di me c’era un progetto, il Vespone serviva a quello, ma poi la vita ha fatto il suo corso.
Tanto è vero che passai al Ténéré 600, il mio mito dell’epoca, nonostante i veti paterni, acquistato di nascosto e su esproprio proletario al conto del babbo (cui avevo accesso perché lavoravo con lui), e lui vide ma si rassegnò facendo finta di nulla.
Un giorno, quando sarò vecchio e non potrò tenere tra le mie braccia, la mia Valchiria, ci sarà lei ad alimentare la fiamma dei ricordi, di tutti i modelli avuti, della mia spensieratezza di gioventù anche in età avanzata. Sì, perché la moto, come diceva Edgar Lee Masters in Antologia di Spoon River, come il genio, saggezza e gioventù. Lui scrive: “Quando ero giovane, avevo ali forti e instancabili, ma non conoscevo le montagne. Quando fui vecchio, conobbi le montagne, ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione. Il genio è saggezza e gioventù“. Ecco la moto, quel sogno antico della mia giovinezza chiamato moto, consente ogni giorno di stare dietro alla mia visione.
Ho incontrato persone con questa visione, percorsi tratti torridi con la giacca appicciata addosso ma senza mai toglierla, percorso, come ieri, 150 chilometri di strade sotto diluvi torrenziali da non vedere nulla e sentire i dischi fischiare d’odio antimetereologico. Ho avuto freddo, con le mani ghiacciate, andando a lavoro, sentendo lo spiffero gelido nella giacca chiusa male, ho subito il furto di una delle mie moto più amate. Sono stato di notte sotto la luna, cadendo in terra da fermo, per il gelo addosso. Ho percorso in pochi giorni migliai di chilometri, arrivando stanco ma appagato e sereno, dicendo, in sanscrito, karam karanyam, è stato fatto quello che doveva esser fatto.
Ho fatto curve, mi sono spaventato e mi sono fermato, immerso nel paesaggio, in un tramonto ad elevato tasso di nostalgia, per guardare paesaggi meravigliosi e ringraziare Dio. Ho imparato a stare con gli altri, stando in sella con chi ho amato, a non perdermi guardando il compagno di solitudine avanti a me o dietro. Ho piantato ancora di più le mie radici in terra, definendomi attraverso le sue ali.
Ho immagazzinato ricordi con mia moglie nel granaio della mia anima per l’inverno dell’età in cui dovrò dire basta, di tutti i giri fatti insieme, avendo accanto a me e sentendo che in moto si diventa davvero una cosa sola come nel matrimonio, quando ci si ama in profondità.
Ho percorso tratti veloci, avendo paura e con una diversa consapevolezza, sapendo di non dover mostrare niente a nessuno. Quindi, fermandomi e passaggiando in silenzio, io e il mio motore, della mia Valchiria, entrando sulle sue ali nel Walhalla delle beatiduini motociclistiche. Sono entrato in ansia, non so perché, talvolta, forse a dirmi, posso farne a meno, ora di andare in moto.
Poi l’ho accesa e ogni volta ho pensato a quanto sia meraviglioso mettermi in strada e guardare avanti, col manudrio ben saldo tra le mani, accolto ddalle forme imperiali di Brunilde, quasi lei a proteggermi dal mondo e dai suoi derivati.
Ho speso soldi, per la benzina, per gli accessori, per l’abbinamento che mi fa sentire ogni volta che andrò a Capo Nord. Nella consapevolezza che ogni soldo speso per la moto val bene qualsiasi rinuncia.
Sono convinto, oggi a quasi 61 anni, che ogni attimo vissuto in moto sia speciale. Sono convinto che essere motociclisti sia avere una “weltanshauung” capace di restarti nel cuore e nella mente per sempre. Cuore e acciaio e strade nel tramonto. Andare in moto mi ha portato alla scoperta di me stesso, delle mie nostalgie e come Lawrence d’Arabia, adoro le corse solitarie perché prego e dialogo con i miei demoni. Quando molte volte sono uscito con questi demoni attaccati alle mie spalle, appena in strada, con il casco in testa, si sono arresi e se ne sono andati, scornati, come accadde a Gesù nel deserto.
E sono tornato a casa con gli angeli vicine a sussurrarmi qualcosa sul prossimo giro. Andare in moto è stato sempre un atto rivoluzionario, come disobbedire a un padre autoritario o mandare a qual paese l’universo per immergermi nelle visioni. Quel sogno chiamato moto è nostalgia della mia gioventù, vita presente, nostalgia di tutti i momenti vissuti in sella e desiderio di averne altri, a Dio piacendo. Perché se c’è nostalgia, c’è bellezza che ha trasceso ogni singolo istante.